Tra le righe

Senza cima. Storia di un cedro del libano.

Scritto da: Spazio Personale

[Parte1]

La casa in cui abitavamo da piccole è un contenitore di oggetti infinito. Mio padre credo l’abbia sempre considerata un problema. Penso che se avesse potuto scegliere autonomamente e non avesse avuto un senso del dovere così radicato, non so se ci sarebbe stata una casa di famiglia. Da giovane C. aveva deciso di non proseguire gli studi dopo le superiori per aiutare economicamente la famiglia e i fratelli, in particolare il più grande che aveva già intrapreso il percorso universitario. Voleva fare il pilota d’aereo. Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, perché era un uomo intelligente, arguto, con un forte senso della giustizia e dell’educazione.

Amava essere in ordine, con la camicia perfettamente stirata. Amava i gilet sartoriali, che gli cuciva il padre. Amava il viso rasato e l’acqua di colonia.  Ho una visione molto nitida di quegli anni grazie ai racconti colorati di mia nonna P. e tanti cimeli a sussurrare dettagli di quel passato lontano.

C. con un peso d’amore nel cuore era andato a Ravenna a frequentare la scuola tecnica per tubisti. Era un alunno diligente e volenteroso. Di li a pochi anni, questa formazione gli aveva permesso di essere assunto alla Saipem e di ambire ad un lavoro nelle loro piattaforme petrolifere, localizzate in varie parti sperdute del mondo, lontano dal piccolo paese in cui era nato, lontano da tutto.

C’era stata la Sicilia come prima tappa,  Gela, che negli anni settanta era un polo in piena espansione con raffinerie, impianti chimici e infrastrutture per il trattamento degli idrocarburi.

Credo sia stato bravo nel suo lavoro, meticoloso come al suo solito. E’ difficile lasciare tutte le certezze e trovarsi a lavorare così  distante da casa. L’opportunità da cogliere era però un’altra. Le piattaforme petrolifere fuori dall’Italia, in terre sconosciute e sperdute. La vera sfida era quella. Non aveva impiegato molto tempo ad arrivarci. Posso immaginare solo ora quello che aveva provato  a prendere per la prima volta l’aereo che lo avrebbe condotto così lontano. Da piccola mi sembrava un eroe, non mi sarei mai soffermata a pensare alle sue paure, alla sua solitudine, ma credo ne abbia provata molta.

Posso provare a ricostruire quegli anni da alcune foto e dagli oggetti che ha potato con sé, un vassoio di ottone intarsiato proveniente dal Golfo Persico,  un pugnale decorato, anch’esso di una cultura a noi distante.

Il casco giallo da lavoro, che ha conservato gelosamente per tutti questi anni, durante una fase della malattia che ha cancellato progressivamente la sua memoria  era diventato la sua protezione nei confronti del mondo, non voleva più smettere di indossarlo.

In ogni caso queste lunghe permanenze all’estero gli permettevano di guadagnare bene e di mandare una parte del danaro a casa.

Con quei soldi aveva comperato una cinquecento rosa al fratello più grande che studiava economia e una macchina sportiva per sé, da usare al suo rientro, che prestava volentieri al fratello minore. Qualche giorno fa mio zio M., il più piccolo dei tre fratelli, era con noi mentre mio padre stava morendo, sdraiato inerme su una barella del pronto soccorso, avvolto in una coperta isotermica dorata. Una immagine di lui che non vorrei avere mai visto, ma che non scorderò mai.

Mentre gli tenevamo la mano, abbiamo iniziato a parlare di alcuni episodi della sua vita, ricordi teneri, pieni di affetto. Ci siamo trovati catapultati negli anni settanta, con mio zio giovane all’Università, una settimana con la Cinquecento del fratello maggiore e quella successiva con la Alfetta in prestito di mio papà.  I miei nonni non erano particolarmente benestanti, tutt’altro. Mio nonno faceva il sarto ed anche il barbiere, ma non era portato per il commercio, faceva fatica a chiedere del denaro per accorciare i pantaloni che i compaesani avevano iniziato ad acquistare già confezionati, e non è riuscito a rivalutare il lavoro artigianale di pregio che sicuramente eseguiva. Mia nonna lo aiutava, come aiutava la mamma nella bottega del paese. Di questi luoghi e della loro memoria, restano solo alcuni oggetti sparsi nei meandri della cantina, nessuna attività è stata tramandata. C’era la macelleria di un suo zio, vissuto con mia nonna fino alla soglia dei cento anni, la bottega di Lisa, detta La bionda, mia bisnonna, la barberia e sartoria di mio nonno e un carretto del gelato di cui conservo un coperchio. Poi nulla. Mia nonna aveva avuto un problema di salute per il quale all’epoca si doveva passare un periodo in un sanatorio  che si trovava a Cortina. L’ilarità di mio zio scaturiva dal fatto che i suoi compagni di corso credevano che lui fosse molto benestante, con le sue due auto e la mamma che mandava cartoline di saluto dalla ridente Cortina. A volte l’apparenza inganna. Credo in ogni caso che in quegli anni l’ottimismo e la speranza di un futuro migliore, dopo gli anni bui della guerra, fossero qualcosa di tangibile e luminoso.

Il centro storico del paese, con le case in mattoni, le vie strette, l’ombra della chiesa dietro la quale vivevano, rappresentava il sacrificio e la miseria. 

Andava costruita una casa nuova, grande e bella, per accogliere le speranze nel futuro di questi giovani laureati. Le finestre piccole ed anguste dovevano lasciare spazio ad ampie e luminose vetrate. Furono vendute tutte le proprietà in paese e acquistato un appezzamento di terra nelle nuove lottizzazioni che il comune aveva predisposto. Sono gli anni in cui iniziano ad essere definiti i Piani Regolatori, per organizzare al meglio una nazione che si apre al futuro.

Mio Zio R., il fratello più grande di papà si era laureato e ambiva ad una carriera politica. La casa era principalmente per lui, e per i loro genitori. Mio papà aiutava economicamente la costruzione, ma nei suoi piani non c’era quello di viverci e neanche quello di avere una famiglia. E’ capitato.

Ci sono le foto nel nostro album della casa appena costruita, davanti ad una strada deserta, sulla quale affacciava il giardino curato, gli alberi minuti, appena piantati. Ci sono le foto di mia zia in giardino con gli occhialoni quadrati come andava di moda all’epoca.

Papà era lontano. Dei suo viaggi, quello che amava più raccontare erano le Antille, e degli scorci di lui con la camicia bianca alla mensa operai per la cena, incapace di essere trasandato anche in un luogo così selvaggio.  C’era stata una ballerina una volta che lo aveva particolarmente ammaliato, incontrata la sera prima di un volo aereo, in un locale. Ci faceva molto sorridere questa storia da piccole, a me e mia sorella, perché era strano immaginare che ci fosse stata un’altra vita di nostro padre prima di noi, che avesse conosciuto altre donne prima di mia mamma. L’ingenuità infantile è commovente.

Le trasferte alla Saipem potevano durare solo nove mesi consecutivi, poi doveva esserci un periodo in Italia per poi ripartire. C. aveva intenzione di andare in Svezia questa volta, credo non avesse particolarmente apprezzato il clima tropicale. Aveva cambiato auto e aveva preso una Ford Capri blu, della quale in soffitta c’è un sedile per qualche strana ragione. In questi tre mesi, viveva nella nuova casa che avevano costruito. Il fratello maggiore nel frattempo aveva avuto un bambino e aveva arredato per sé l’appartamento più bello al primo piano, con una grande terrazza dalla quale si vedeva il paese, con le case piccole e affastellate, i campanili e l’ombra della loro infanzia. Ora la potevano osservare da lontano, al sole caldo della terrazza, nella quiete del nuovo quartiere ancora deserto. La modernità permeava ogni scelta.

Certo, non si erano accostati ad un tipo di architettura modernista, non erano stati sedotti dalle forme pulite del Movimento Moderno, probabilmente non c’erano neanche figure professionali all’epoca in grado di dar vita a forme più ardite. La casa incarnava lo spirito del tempo. Un grande parallelepipedo con il tetto spiovente, bucato dalla loggia e dalla terrazza al primo piano. Le finestre erano ampie e inondavano di luce le stanze. Era stato scelto un intonaco al quarzo graffiato bianco, intervallato da ampie campiture colore ruggine, colore ripreso poi nella recinzione.

Oltre alla loggia d’ingresso e alla terrazza del primo piano, sul retro, affacciate su un grande giardino e la distesa infinita delle colline coltivate che si stendeva a perdita d’occhio fino alle montagne, due balconi stretti e lunghi, permettevano a tutte le camere di avere grandi porte finestre a quattro ante. La balaustra che era stata scelta era singolare e ad essere sinceri, nonostante io mi occupi di architettura, non mi è capitato di vedere altri esempi simili di quella tipologia. Le balaustre erano infatti composte di piccoli moduli quadrati realizzati con dei riccioli simmetrici, che si componevano ad incastro. Questo sistema permetteva di realizzare qualsiasi lunghezza senza interruzioni. Il materiale era una plastica dura color avorio, che il tempo ha poi ingiallito.

La casa si compone di quattro livelli, ciascuno di circa 150 metri quadrati. Si entra dalla loggia, un bel patio riparato dove in passato c’erano sempre stati dei mobili in vimini, con i loro cuscini in cotone pesante, bianchi e morbidi. C’era anche una bellissima sedia a dondolo, sempre in vimini, dove da piccole mia sorella ed io facevamo a gara per sedere, complice di giochi d’equilibrio e spericolate manovre di ribaltamento. Dal pesante portone in legno massello, decorato con formelle quadrate piramidali, che gli conferivano una certa importanza si entra nel vano scala comune. All’epoca doveva essere davvero bella. La scala è, come tutti i pavimenti degli ingressi e dei saloni ad entrambi i piani, rivestita in Chiampo Rosato, una varietà di marmo italiana estratta principalmente nelle cave del Veneto, caratterizzato da sfumature rosate che spaziano dal rosa chiaro al beige e venature più scure che ne arricchiscono l’aspetto estetico,  con battiscopa alti in verde Alpi. La balaustra in ferro battuto, è sormontata da un corrimano in ciliegio lucido ed elegante. I portoni di ingresso ai due appartamenti principali, sono in noce tanganika, a doppia anta con modanature in massello, e la stessa lavorazione si ritrova all’interno su tutte le porte delle stanze. Al piano rialzato c’è il primo appartamento, che inizialmente era dei miei nonni. Ingresso in continuità con un ampio salone, cucina e cucinino, un’ampia zona notte con tre camere e due bagni. Al primo piano, un appartamento identico, ma più grande, disponendo della superficie che al piano rialzato è della loggia, con la grande terrazza ad angolo e la scala interna aperta di accesso alla mansarda, anch’essa abitabile e dotata di terrazzino e bagno, una sorta di piccolo appartamento per gli ospiti nella parte centrale e soffitta nelle parti laterali dove la pendenza della falda riduce l’altezza abitabile.  Dall’ingresso principale, scendendo le scale ci si trova in uno spazioso garage con due cantinette laterali, e attraversandolo si arriva alla porta di servizio di un terzo appartamento, il più piccolo, affacciato sul giardino retrostante la dimora. Lo spazio del soggiorno è dominato da un grande camino in pietra, sormontato da una possente trave di legno, recuperata dalla dismissione delle traversine ferroviarie avvenuta al tempo. Una camera da letto e il bagno con vasca completano l’appartamento. Non lo so con sicurezza, ma i primi ad abitarci furono credo i miei bisnonni. La camera da letto conserva la memoria del loro tempo, con un grande armadio in legno intarsiato coordinato alla testiera del letto, al cassettone e ai comodini. La fattura di questi  ultimi a mio parere era bellissima, con la radica lucida, le bombature e dei riccioli di colore più intenso ad accarezzare i frontalini dei cassetti.

Non hanno avuto un gran successo dal Rigattiere, tanto che il cassettone con specchiera si è rifiutato di prenderlo in consegna.

In questa camera, pieno di polvere, un lampadario all’apparenza anonimo ci ha rivelato di essere di Hervey Guzzini per Meblo. Un iconico pezzo di design, una calotta di plastica dura leggermente sfumata su toni del sabbia, perfettamente integrabile in progetti d’arredo contemporanei. C’erano tantissime cose che incarnavano lo spirito moderno degli anni settanta in questi locali, in particolare dei tessuti, con le tipiche lavorazioni geometriche dai colori vivaci, ocra, arancio, verde muschio. Gli stessi disegni decoravano le tazze per la colorazione, e soprattutto l’arancione, tipicamente il colore di una plastica dura e lucida, tingeva accessori da cucina dalle più svariate funzioni.

Oggi il pavimento ha ceduto, portandosi dietro parte della muratura interna. Gli oggetti non sono più al loro posto, regna il caos ovunque e la polvere, soprattutto a questo livello della casa, copre ogni cosa. Sembra un territorio di guerra, colpito non direttamente da un bomba, ma dalle propagazioni della sua onda d’urto, quel tanto che basta per far fuggire tutti e abbandonare il pericolo di un ipotetico crollo imminente.

Nel garage, bombardata anch’essa, si trova la macchina di mia nonna P., una Fiat 600 Red, color bordeaux, che A. aveva deciso di ristrutturare. Aveva chiesto a sua madre di lavare le foderine dei sedili, ma si è ammalata ed è morta, e le foderine non si sono più trovate. Cerco degli spiragli di luce in questo garage pieno di oggetti, ma ovunque io posi lo sguardo ci sono macerie, fisiche ed emotive.

Ogni oggetto che si trova qui è un frammento di storia familiare. Vendere la casa significherà avere dato ad ogni cosa la giusta collocazione. La discarica, il rigattiere, le aste on line per gli oggetti di maggior pregio, ma tutto deve essere preso in mano, valutato e sistemato altrove. La memoria, i ricordi, sono la ragione che mi spinge a scrivere queste pagine, così una volta che non ci saranno più, li porterò sempre in ogni caso insieme a me. Negli angoli più nascosti delle cantine, ci sono le cose più antiche. Mio papà usava il tavolo della sartoria del padre come banco da lavoro, e frugando abbiamo trovato la cassettina di legno che fungeva da cassa per i pagamenti, il supporto sempre in legno per fare le asole alle giacche ed ai cappotti,  dei vecchissimi ferri da stiro a carbone, le forbici della sartoria. In un angolo, smontato c’è il mobiletto della barbieria, con i rasoi in corno e la cinghia per affilarli, tutti echi lontani, aneliti di un mondo e di una società che non esiste più. Mi sento un profugo in fuga dalla guerra, ma la guerra in questione colpisce solo l’animo e la memoria.

[Parte2]

Mia mamma da giovane aveva lunghi capelli chiari che le sfioravano la schiena, gli occhi azzurri e un fisico minuto e longilineo. Mi hanno sempre colpita le sue mani affusolate, con le unghie allungate e ben proporzionate, che non ho ereditato.

Ho dei fotogrammi solo immaginati del loro incontro, della loro storia d’amore, delle promesse di una vita felice.  Mia mamma si truccava gli occhi di blu, come di moda al tempo, e impiegava ore per prepararsi ed essere bella, prima di scendere ad aspettare l’autobus che l’avrebbe portata al suo lavoro di segretaria.  Mio padre passava a prendere un suo amico alla stessa fermata e si è offerto di darle un passaggio. Credo sia stato un amore vero e sincero il loro. Non ricordo un litigio, un allontanamento, uno sgarbo. Ricordo un amore sereno e piccole cose importanti. Ricordo mio papà che rientrava dal lavoro, in un completo elegante e con l’impermeabile di Allegri, insieme all’immancabile borsello. La nostra cucina era luminosa, con un tavolo in legno scuro rotondo e dei contenitori decorativi in ceramica a forma di mela. Tutto era pulito, in ordine, sereno, e papà le baciava il viso al suo rientro, con dolcezza, accanto alla finestra.

C’erano i compiti da fare sul tavolo della cucina, i cartoni animati all’ora di cena, il ripetersi cadenzato delle giornate.

Mia nonna sosteneva che se non avesse incontrato mia mamma, C. non si sarebbe mai sposato e sarebbe partito per un nuovo viaggio. Durante l’infanzia, non sono meccanismi che si riescono a comprendere. Le scelte, i compromessi, le preoccupazioni. Solo ora e non del tutto, riesco a cogliere la malinconia che probabilmente provava nel vedere la scia bianca di un aereo fendere il cielo terso incorniciato dalla finestra della cucina. La fronte accigliata degli ultimi anni, l’incapacità di radicarsi nella società locale. Il suo mondo prima sconfinato, si era ridimensionato tra le mura domestiche, prima con il mio arrivo, poi con quello di mia sorella. Un nuovo lavoro nella pubblica amministrazione, rispettabile e sedentario, una Giulietta beige nel garage, il quaderno dei conti con mia nonna, dare e avere, preciso, meticoloso, così da non fare torto a nessuno.

Le vicende di quei primi anni di vita della casa non sono così nitide.

Poco dopo avere avuto il loro primogenito, il fratello maggiore di mio padre e sua moglie, decisero di andare via. La casa che aveva costruito con tanta dedizione, non rispecchiava lo stile di vita di mia zia, abituata ad una città più grande, non al piccolo paese in cui la casa si trovava. Se ne andarono, dopo avere coperto il marmo del soggiorno appena realizzato con una più moderna moquette grigia, alla moda dell’epoca. Mia nonna P. non ne fu felice.

In quello stesso periodo, dopo appena qualche mese di frequentazione all’inizio del 1976, mia mamma scoprì che aspettava un bambino, anzi, una bambina, io. Erano da rivedere tutti i piani.

M. era davvero giovane, una ragazzina di vent’anni appena, cresciuta senza padre dall’energia battagliera di sua madre. Erano momenti difficili per lei. La sorella aveva subito un delicato intervento. Tre donne sole, una bambina in arrivo. L’appartamento al primo piano lasciato libero. 

Si sposarono in Comune. Non era usuale all’epoca. Il sindaco non aveva mai sposato nessuno. Il rapporto con la religione di mio papà era di distacco e probabilmente me lo ha trasmesso. Una diffidenza lucida, rispetto a irrealizzabili promesse d’eternità. Mia mamma era vestita in maniera semplice ed elegante, con un abito in seta colore sabbia, e gli occhi dipinti di celeste. Anche il pranzo fu fatto a casa, in quella sala al piano terra in cui ho abitato per diversi anni.

Uno dei ricordi più lontani nel tempo che ho è di una domenica assolata nel giardino sul retro. C’era un bellissimo salice piangente, con le lunghe fronde che sfioravano il terreno. Papà aveva un plaid a scacchi in lana che aveva steso sull’erba, e stavamo lì, a goderci il sole, con mia sorella piccolina, bionda  e paffuta.

Il giardino era un luogo magico da bambine, a volte avevamo la sensazione fosse una foresta nella quale potersi perdere. Davanti alla casa papà aveva costruito un’altalena in ferro e un dondolo. Dietro c’erano  i pini dove poter ancorare l’amaca e gli ulivi sui quali salire e accovacciarsi. C’era amore. Nella casa, nel giardino, nelle feste di compleanno organizzate durante le elementari, con i tramezzini e la torta decorata con la panna montata. 

L’infanzia era spensierata. Mia nonna P. veniva  a prenderci a scuola, con la cinquecento rosa. Papà le aveva dato lezioni di guida e aveva preso la patente. Ci preparava il pranzo nella sua cucina, con il caminetto acceso. A volte per merenda abbrustoliva il pane nel caminetto e faceva bollire l’orzo. In quella tazza nera e profumata d’anice, faceva poi cadere delle “gallinelle”, gocce cremose d’uovo sbattuto con lo zucchero, che galleggiavano allegre.

C’era una sedia a dondolo di velluto rosso cardinale in cucina dove si accoccolava un elegante gatto persiano di colore grigio, Polly. E’ strano.  Anni dopo ho vissuto in quella casa, senza cambiare niente, ma era cambiato tutto.  Ci sono delle sovrapposizioni, come degli strati che si sedimentano sopra i ricordi, e non sembra più di attraversare le stesse stanze.

Il letto di mia nonna era altissimo  e d’inverno aveva le lenzuola in flanella. Era un tepore vellutato, rassicurante. La sensazione è che nel passato ogni cosa fosse esattamente al suo posto, mentre nel presente tutto si è confuso e mescolato e non si riesce più a fare ordine. Non è una sensazione che riguarda solo me e la mia vita, riguarda la società in generale, uno smisurato aumento di cose inutili, superflue, ridondanti, al posto dell’iconico e dell’essenziale.

Il como’ della camera da letto era iconico. Con il vetro nero meticolosamente spolverato e i centrini all’uncinetto per non graffiarlo.

Nel primo cassetto, riposti in una graziosa scatolina di stoffa, i fazzoletti di cotone, con le iniziali ricamate, perfettamente stirati e profumati di lavanda. Anche l’armadio era, con gli occhi dell’infanzia, un mistero da scoprire. In fondo, dentro qualche  scatola, c’erano segreti e tesori, c’erano storie da ascoltare che nessuno mi racconterà più.

C’era una coda si volpe rossa dentro l’armadio che sembrava una specie di trofeo. Era parte di una storia che mi raccontava mio padre, alla quale per moltissimi anni ho creduto.

Durante uno dei suoi viaggi di lavoro, aveva fatto amicizia con dei ragazzi del luogo, con i quali condivideva la passione per la caccia. Durante una giornata di riposo, armato di fucile e di fionda, aveva deciso di avventurarsi insieme ad uno di loro fuori dal villaggio dello stabilimento. E’ un deserto, è la Savana nei miei ricordi di bambina, ma con degli alberi sui quali arrampicarsi. Erano stati inseguiti da un leone in questo luogo selvaggio e per salvarsi si erano arrampicati proprio in cima ad uno di questi alberi. Il leone non voleva lasciarsi sfuggire le sue prede, per cui si era accovacciato sotto le fronde e si era addormentato. Il fucile era rimasto appoggiato a terra, ma C. aveva con se le cartucce e le sigarette. La storia era rocambolesca e surreale, ma altrettanto avvincente. Una cartuccia veniva lasciata cadere vicino al leone, e così pure una sigaretta accesa, che la faceva esplodere uccidendo il leone.  A quel punto, non restava che tornare al villaggio con la pelliccia di leone come trofeo. Visto che non era poi stato possibile portarla in Italia, l’aveva scambiata con il suo amico, con la coda di volpe rossa. Una coda morbida e setosa, profumata di avventura, che suggellava la mia favola preferita.

Quando una casa resta disabitata, è come se venisse privata della sua anima. Sento che è accaduto questo. C’era un tempo in cui ogni cosa veniva fatta con cura. Le pareti venivano ridipinte periodicamente, a fine stagione si riponevano i cuscini dei vimini fino alla primavera seguente, si tagliava l’erba e la siepe. Un ordine rassicurante  spezzato. L’incendio dei cipressi, mia nonna che si trasferisce in una casa più piccola in paese, la pensione troppo anticipata, le figlie all’università. Un lento inesorabile degrado cognitivo e ambientale. C’è un parallelismo che noto tra la malattia di papà e la decadenza della casa. A mano a mano la sua mente e le pareti si sbriciolavano insieme. L’erba cresceva incolta, l’edera intrecciava i suoi pensieri.

Papà si era sempre preso cura di tutto e di tutti anche a discapito della sua felicità. Aveva ridipinto l’intera casa da solo quando eravamo piccole, pericolosamente arrampicato su una scala altissima. Aveva un tagliaerba arancione e rumoroso che inaugurava l’inizio della primavera.  Il ricordo dell’erba appena tagliata è come un raggio di sole in questa nebbia malinconica che è diventato il passato.  Teneva conto di ogni piccola crepa. Sapeva dove ristagnava l’acqua dopo la pioggia, dava l’olio alle cerniere delle porte.

Ha passato lunghe ore da solo sulla poltrona della cucina. Lo sguardo fisso, rinserrato nella vestaglia da casa come in un’armatura, ed ha iniziato a lasciare che le cose si deteriorassero piano, lentamente. Tutti noi abbiamo lasciato che le cose si deteriorassero, siamo tutti colpevoli. Ora la casa è vuota e il cedro del libano che è cresciuto insieme a noi davanti a lei, che frusciava nelle giornate ventose, che si riempiva di neve negli inverni dell’infanzia, senza pietà è stato decapitato. Mia mamma non ha capito cosa le stava chiedendo la nostra vicina. Il cavo del telefono passava tra i rami, sembrava bastasse potare leggermente la pianta per liberarlo. Papà non lo avrebbe permesso. La pianta è stata tagliata subito sotto il cavo della luce, senza criterio.  Ora è li e non riesco a guardarla. Rappresenta il dolore. Rappresenta la perdita. Rappresenta la malattia che ha sbriciolato i ricordi, l’incuria e l’incapacità di valorizzare ciò che si possiede. E’ come una ferita, come un arto amputato senza necessità. Quando vendiamo gli oggetti, so che gli stiamo dando una nuova possibilità, un nuovo inizio, rispetto e valore. Con l’albero non è stato così. Non ci siamo presi cura di lui, non lo abbiamo rispettato. Il custode silente della nostra storia, il guardiano dei nostri ricordi, spezzato, senza cima.